IOHANNES o GIOVANNI detto "ZANO"
Iohannes figlio del conte Eberardo I (1139 - 1176) di Sayn(la cui famiglia era probabilmente già vassalla dei conti palatini dell’Auelgau) seguì l'imperatore Federico I di Svevia detto il “Barbarossa” nell'ottobre 1154 quando scese attraverso il Tirolo in Italia. Nel 1155 gli fu comandato di restare con la retroguardia nei dintorni di Firenze mentre si dirigeva verso Roma. Su ordine imperiale restò acquartierato con i suoi cavalieri stabilendosi nella zona. Il 10 marzo 1162, venne richiamato per far parte del contingente degli assedianti di Milano dove fu uno dei più "scatenati". Per il contributo ebbe la signoria di un castello. Ioannes di Sayn diventò Ioannes di San e poi di Zan. Tutt’ora fortunatamente si conserva un suo sigillo.
I suoi discendenti vennero definiti Zani, Zanotti, Zanotto. Si attribuisce alla sua impresa o comunque agli assedianti imperiali, un personaggio di un bassorilievo, conservato al Civico Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco (sala 6), anche in base al cronista duecentesco Bonvesin da la Riva. Un’attestazione della presenza dell’atto di Federico I è presente in un nostro inventario settecentesco, dove si riporta la citazione dell’atto e la sua posizione nell’archivio…"In Christi Nomine Amen anno 1163”. Nel 1274 Goffredo III (1261 - 1283)  conte reggente di Sponheim-Sayn,  volle rinsaldare i rapporti con gli antichi parenti per future alleanze(di questo documento sopravvive solo il sigillo e il testo riscritto nel ‘700).  Ringrazio sinceramente il carissimo amico Stefano Bianchi Michiel per la bellissima foto e la signora Maria Rosalia Flavia Di Martino, discendente dei Querini di San Leonardo, per le sue indicazioni.
 

Nomina del miles crucisegnato Zano Signore Del Casteo. Il primo Zanotto Signor de Castelo". Gli eruditi dei secoli passati erroneamente lo indicavano come fiorentino fuorviati da un manoscritto  datato 1318,  i Zanoto toscani, di antica e nobile famiglia, de Florencia de San Martino ad Aquarum arrivati in Veneto con diversi rami. Soleva seguire un principio In piedi davanti ai potenti, in ginocchio solo di fronte a Dio. Per il suo coraggio ed il suo modo di combattere venne soprannominato "Il Leone", dallo stemma di famiglia che pose sullo scudo con cui partecipò alla prima crociata del Barbarossa (fu Miles Crucisegnato), fu il Leone Crucisegnato, l'Invitto, l'Ardito. Il leone, sul suo scudo, dopo la crociata in cui morì il suo imperatore, porterà i colori del giorno e della notte o della vita e della morte, di nero e bianco. A causa dei “risvolti della storia” si perse la collocazione della sua residenza nata sicuramente dal suo acquartieramento strategico.

Grazie alle notizie della dott.sa in storia dell'arte Serenella Fidelibus, si è scoperto il probabile luogo della residenza(castello o torre) di Johannes e degli ultimi “fiorentini” della famiglia, partiti verso il Veneto nella seconda ondata del trecento(ondata divisa in due momenti nel XIV secolo). Il luogo è citato come “San Martino ad Aquarum” oggi corrisponderebbe alla zona di Via del Presto di San Martino vicina all'Arno, ovvero la strada evidenziata in rosso, conosciuta oggi come Santo Spirito”. Anticamente detta Casellina, era una località rurale piena di castelli, monasteri e vigne la quale solo nel 1172 entrò nella prima cerchia muraria comunale. Doveva essere non solo commercialmente ma anche strategicamente importante in caso di fuga, in quanto zona di guadi facilmente attraversabili, Federico I di Svevia non si fidava molto degli italiani, poco controllabili e spesso in rivolta contro le ingerenze straniere.

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ANDREAS E IOANNES
In un periodo non definito (a causa della mancanza di documenti relativi, dovuti probabilmente ai conflitti dei due secoli successivi alla caduta della Serenissima), precedente alle guerre guelfo-ghibelline, si stabilirono a Venezia. Tra il Duecento e il Trecento si contano diverse varianti del blasone con il leone “troncato”, una per ramo (tipiche dell’araldica del periodo non ancora stabilizzata); di quel periodo si citano nelle cronache ben dodici varianti, riconducibili comunque ai due citati nell’Ottocento negli archivi veneziani e in quelli padovani (“Troncato di verde e di rosso al leone rampante dell'uno all'altro” e “Troncato di verde e di rosso al leone rampante dell'uno all'altro, alla fascia trasversale”).                
La famiglia fu iscritta nella classe dei Cittadini Originari. Negli anni successivi, da questa “nuova casa” (non ci è dato sapere da quale ramo) nacquero Andreas e Iohannes, i quali furono rispettivamente zio e nipote. Entrambi postularono la loro entrata nel Tempio. Venne permesso loro di “fare le prove”( come per l’Ordine dell’Ospedale anche l’Ordine del Tempio all’inizio del ‘200 prevedeva che,  per essere ammessi come frati-cavalieri,  dovessero dimostrare la loro antica nobiltà con documenti). La progenie venne riconosciuta di Antica Nobiltà “dall’Ordine della Povera Militia del Tempio di Salomone”, detti volgarmente Templari. Di essi conosciamo solamente la morte eroica(grazie ad una ducale della fine del trecento del doge Antonio Venier), a San Giovanni d’Acri nel 1291, assieme ad altri 18 confratelli e il loro Gran Maestro, per permettere alle ultime famiglie di trovare rifugio nella fuga sulle navi che lasciarono l’ultimo porto in Terra Santa, tra i pochi templari che riusciranno ad approdare a Cipro vi sarà anche il futuro ed ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay.

LEON
A Venezia avviarono floride agenzie commerciali e banchi.
Leon, è citato nei registri Misti, del Consiglio dei Dieci, in quanto un certo Marco Venier era in gravissima “mora” per un prestito mai restituito, il suo debito era tale che dovette essere confinato a Milano.
La sentenza datata 28 maggio 1320, impone che i Giudici del Petizion debbano pagare il credito del Venier a Leon.                                 
Leon fu uno degli artefici della rinascita economica della famiglia dopo le Crociate d’Outremer. La famiglia si era stabilita in pianta stabile a Venezia (veniva definita “la nostra nuova patria”). Fu uno dei banchieri del periodo.

ANDREA
Dette inizio alla tradizionale “scuola” d’addestramento famigliare, tramite esperienze personali acquisite vivendo a contatto con i Turchi e commerciando in “spezie e granaglie”. Quando il senato veneziano decise l'impresa "Galeas per montes", ovvero il trasporto delle barche dei veneziani scavalcando le montagne.Per la gente dell'epoca, per il contadino nel proprio orto, per il fabbro nella sua fucina, per il mercante alla guida del suo carro, fu un episodio surreale....vedere un'intera flotta armata veneziana, trainata e issata lungo le pendici di colli e versanti montuosi.
Questa è stata una delle più importanti opere di ingegneria militare mai realizzate. Nel momento in cui la Repubblica di Venezia divenne la prima potenza del Mediterraneo: dall'inizio del XV° secolo la Serenissima iniziò ad espandersi nella terraferma veneto-lombarda attraverso conquiste militari o dedizioni spontanee, come Brescia il 20 novembre 1426. Nel 1438, tuttavia il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, scese in guerra contro la Repubblica e con una serie di colpi di mano prese il controllo delle terre lombarde fino al lago di Garda meridionale e ponendo Brescia sotto assedio. Il capitano milanese Nicolò Fortebraccio aveva il controllo di tutto il settore meridionale del lago.
La Serenissima decise quindi di predisporre un piano militare che permettesse alle proprie truppe di sorprendere l'esercito visconteo passando a nord, per le prealpi. Il tragitto consistette nel trasporto di 25 barche grosse, 2 galee e 6 fregate, dal mar Adriatico al lago di Garda, risalendo il fiume Adige fino a Rovereto e trasportando le navi via terra a Torbole, sulle rive settentrionali del lago, per un percorso di circa 20 km tra le montagne passando per il Lago di Loppio (oggi scomparso). l'esercito di scorta era comandato da Marco Loredan e la sua avanguardia, era comandata dall’allora luogotenente del Loredan, Andrea Zanotto(il quale benché avesse perso un braccio in battaglia era ascoltato e rispettato dalle fanterie che comandava, forse anche perché parlava con loro senza interprete) ed era composta da montanari ed esperti veterani(svizzeri e lanzichenecchi e moltissimi boscaioli del Cadore e della Baviera) quasi tremila uomini. Il loro compito era di “sganciarsi dal resto del serpentone”, precederlo di tre o quattro giorni e costruire con molto clamore una “via falsa” nascondendo l’esercito nei boschi e facendo vedere solo il lavoro dei boscaioli. L’avanguardia trasse in inganno le vedette che seguivano i lavori. I “milanesi”, con uno sbarco tramite barche e aggirando il lago, cercarono con una grossa sortita di fermare i lavori, ma furono stretti in una feroce morsa dalle truppe che sbucavano dai boschi e decimati, le loro bandiere e stendardi furono posti in modo tale da “beffare” le vedette, dando l’illusione di vittoria. Le staffette venete corsero ad avvertire che il piano aveva funzionato e che potevano terminare l’attraversata. L’avanguardia si riunì all’esercito. Non essendo più abile alla vita militare si dedicò alla mercatura. Nel 1453, aveva vissuto il terribile momento dell’assedio ottomano di Costantinopoli. Questa esperienza cambiò profondamente la sua vita e quando la Serenissima e il Gran Signore dei Turchi, Maometto II "il conquistatore", conclusero la pace, ritornò sotto mentite spoglie, passando vicino alla porta(Top Kapi, la porta del cannone) dalla quale erano penetrati i “nuovi padroni”. Aveva capito che per poter servire meglio la Repubblica, bisognava conoscere “molto” e rendersi il più “invisibile” possibile. Esso fu il primo della famiglia a condurre a buon punto ”Incarichi particolari al servizio della Repubblica”. Lasciò dei memoriali minuziosamente descritti con un itinerario e dei disegni schizzati che testimoniavano i suoi spostamenti e sulle sue particolari esperienze e indicazioni esatte dei suoi viaggi. Conosceva il Turco (nei vari dialetti), il Persiano, il Greco, lo Schiavo, l’Albanese, il Tedesco, il Francese, l’Olandese, lo Spagnolo, il Berbero e l’Inglese.
Ebbe due figli, Antonio e Zane (capostipite del ramo di Treviso).                

ANTONIO
Fu un personaggio dei suoi tempi. Ampliò le attività commerciali della famiglia investendo nel mercato del grano e delle spezie, specialmente nel carichi delle navi che arrivavano dalla Siria, da Aleppo, da Alessandria d’Egitto e da Costantinopoli (oggi Istambul, da una scarsa comprensione del greco “éis tèn Pòlin”,verso la città).
Dopo una vita passata tra imprese e armi, consacrò la sua vita alla patria, distinguendosi nelle “carichi” a lui comandati dal Palazzo Ducale. Migliorò la “scuola”. Non fu solo un inviato in “carichi particolari”, riguardanti “affari speciali”, fu un valente soldato nonché un audace partecipante a diversi tornei. Lasciò dei memoriali minuziosamente descritti sulle varie “scienze” da lui imparate in “Barbaria”. Sanzionò la tradizione dei memoriali fedeli alle esperienze vissute. Decise di stabilirsi nel sestiere di Castello. Ebbe tre figli: Andrea, Alvise e Cristoforo.

PIETRO
Citato tra il 1501 e il 1521. Si dedicò esclusivamente alla vita militare. Combatté sotto molte bandiere. Nel 1508 entrò a Pordenone con la cavalleria veneziana al seguito della “meteora” Bartolomeo Liviano conte d’Alviano. Dell’impresa si conservano alcuni resoconti del fatto. Il Liviano nominerà un nostro lontano cugino, appartenente al ramo di Montagnana, Nicolò Zanoto o Zanotto o Zanotti,  governatore della città di Pordenone.
Fu tra i cavalleggeri veneziani che arrivarono al seguito dell’Alviano, la mattina del 13 settembre 1515, alla battaglia di Marignano in aiuto dei Francesi del re Francesco.                                                                  

TOMMASO "RANGONE"

Da questo ramo originatosi nel '400 da Zanotto Zanotto stabilitosi da Padova a Ravenna.. Tommaso, di questo ramo, fu eletto nel 1562 Guardian Grando della Scuola Grande di San Marco di Venezia.  Il suo blasone fu fatto porre con la sua statua  sulla facciata della chiesa di San Zulian a Venezia.

 

ANDREA "il Grande" darà Inizio alla Genealogia Comitale

Acquerello di Andrea I " Il Grande". Porta ancora l'uniforme di quando militava con Giovanni dalle bande nere, qui investe di comandante di fortezza.

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ANDREA “Il Grande”(1)
Figlio di Zane, fu il capostipite famiglia comitale. Seguì il padre nei suoi numerosi spostamenti, sia come “osservatore” sia come soldato. Fu avviato alla carriera militare. Fece pratica in diversi tornei costruendosi fama imperitura. Costituì attraverso volontari, ma soprattutto veterani, una formazione da combattimento composta principalmente da cavalleria e da una unità di artiglieri che trasportavano piccole colubrine sui carretti trainati da cavalli, dandogli una possibilità di fuoco e di movimento mai vista rispetto alle lente e pesanti e soprattutto molto ingombranti artiglierie che uscivano dal Medioevo ed entravano nel Rinascimento, l’epoca delle fanterie. La sua “unità” era comoda perché all’occorrenza non disdegnava a trasformarsi in fanteria per adattarsi al tipo di battaglia e soprattutto al terreno dove si doveva combattere. Un nucleo della sua unità era costituito da balestrieri a cavallo. Nel 1521, il 19 novembre affianco con i “suoi” le trecento “lance” veneziane a difesa di Porta Ticinese a Milano. Nel bolognese entrò in contatto con la “scuola” del Manciolino, del Marozzo e  di  Filippo Vadi. Fu al servizio come luogotenente dei migliori capitani di ventura dell’epoca, come Giovanni de’ Medici, detto dalle Bande Nere( l’amicizia più o meno espressa, si salda, quando entrambi si ritrovano al servizio dei Francesi nei primi di dicembre del 1524, durante l’assedio di Pavia davanti al fuoco dell’accampamento compose una canzonetta contro gli imperiali nella quale paragona l’imperatore Carlo V ad una “picca secca”). Nel 1525 per curare la ferita di un’archibugiata ricevuta nella coscia, a Piacenza, il de’ Medici (Zuanin, come lo chiamavano nella cosmopolita città lagunare), si trasferirà ad Abano, e successivamente a Venezia per la convalescenza. A Venezia rimarrà da maggio ad agosto, passerà parecchi giorni a Palazzo Giustiniani a San Moisè e in Casa Zanotto e in molte altre dimore, li prenderà anche contatto con l’amico Ludovico Michiel.
Andrea con la sua unità e con il conte Azo venne inviato dal “gran diavolo”(appellativo di Giovanni delle bande nere) ad acquartierare le loro fanterie presso il conte di San Secondo come dimostra la lettera inviata al cardinal Salviati. Alla battaglia di Pavia (combattuta tra la notte del 23 e la mattinata del 24 febbraio 1525), vi furono molti morti della cavalleria nobile francese, vi fu anche il Gran bastardo di Savoia (fratellastro della madre di Francesco I), per i veneziani era presente il provveditore Pesaro. Dagli ungheresi prigionieri seppe che i Turchi presto sarebbero passati a cavallo per tutta la loro terra e che tanti europei erano venuti per difenderla, e soprattutto che i principi pagavano in oro sonante anticipato tutte le compagnie che accettavano di difendere i feudi. A fine battaglia, “sganciò” le sue truppe.
Trasferì le sue compagnie al “soldo” di uno dei feudatari che sarà fedele a Ferdinando I d’Asburgo, nella “porzione” restante del Regno d’Ungheria(una striscia a occidente del lago Balaton, dai Carpazi al mare, con capitale Pozsony)  dopo la disfatta ungherese a Mohàcs, contro gli Ottomani comandati da Solimano il Magnifico (o kanuni, il legislatore, alla turca) con il gran visir Ibrahim (29 agosto 1526).
Prestò servizio agli ordini di uno dei pochi nobili ungheresi fedeli agli Asburgo in qualità di comandante di una delle roccaforti sotto il suo dominio, il Castello di Devín. Per la difesa di quello che era rimasto della Croazia e dell’Ungheria, Ferdinando I, istituì una fascia militarizzata, lungo la frontiera turca, la krajina. La zona militare era sottratta alla giurisdizione del bano e della Dieta di Croazia e in parte ai feudatari ungheresi. Era governata da capitani con funzione di generali di varia provenienza, in Ungheria in parte alle dipendenze dei principali feudatari locali, con il benestare del re, e futuro imperatore, il nuovo re non era affatto favorevole alla presenza di un veneziano tra le sue fila, meditando egli stesso di attaccare la Serenissima, però non poteva contrariare il “capo dei suoi feudatari”, quindi non poté far altro che accettare. Andrea protesse e accolse diversi contadini che scappavano dalle zone sotto il “giogo” ottomano. 
I contadini in rivolta ai margini del suo territorio sotto il controllo turco, tramite emissari chiesero “in ginocchio” il  suo aiuto, che ottennero con il benestare del feudatario ungherese (nemico giurato dei Turchi). L’intromissione dei “nuovi arrivati” fece infuriare il comandante turco Muhad Nasha paÅ¿a, il quale riunì tutte le forze (il famoso “battaglione sacro”) sotto il suo comando(circa 1500 uomini) e attaccò il castello oltre il confine, senza il benestare della “Porta”. Prima dell’inizio dell’assedio vero e proprio, durante un’incursione,  venne catturata sua moglie (la sorella del feudatario ungherese) con le altre mogli degli ufficiali nella cittadina antistante il castello. Le donne subirono tortura e altre azioni violente. All’ennesimo rifiuto di Andrea di arrendersi e di consegnare i contadini e aprire le porte della fortezza, le teste delle donne vennero infilate su alcuni pali piantati davanti alla fortezza. La piccola guarnigione(circa 180 uomini) ingrossata dai soldati salvatisi da Mohàcs e da centinaia di contadini che avevano prestato servizio nell’esercito, con loro resistette strenuamente. Durante i giorni della battaglia, Andrea venne ferito più volte. Curato “alla meno peggio” da alcuni dei suoi soldati, riprese il suo posto sugli spalti, con il nipote che fino a quel momento lo aveva sostituito. Murad si accorse che il suo battaglione era ben poca cosa al di fuori dei saccheggi, stupri e parate, ma preferì morire piuttosto che ritornare sconfitto dopo le violenze perpetrate. Voci del suo comportamento erano già arrivate alle orecchie di Ibrahim e Solimano, in caso di sconfitta lo aspettava una morte terribile, bollito lentamente nell’olio e zolfo, per aver violato un trattato e soprattutto essere stato sconfitto dopo averlo violato.
Andrea, addestrò gli ufficiali e i nobili minori, formò una “torma” di cinquanta cavalieri con i quali attaccò ripetutamente il campo turco, con una tenacia ossessiva.
Quando gli Ottomani si preparavano a respingerlo era già svanito lasciando dietro di sé una scia di cadaveri. Secondo i resoconti ottomani “Sembrava che fosse ovunque, in ogni luogo, non dava loro tregua, né di giorno né di notte con azioni di guerriglia”.
Comandò personalmente le cariche, assistito dal nipote Giovanni. All’avvicinarsi degli aiuti(una colonna veloce di mercenari a cavallo seguiti da fanteria e da  carriaggi) fece un’ultima carica per spezzare l’assedio, permettendo così alla colonna di rifornimenti di giungere in aiuto della cittadina.
Gli uomini della Torma che combatterono con lui lo soprannominarono “l’Azza di Dio”, lo “scudiscio di Solimano” o come amava lui “il  Leone” come il suo avo.
Dei millecinquecento mussulmani si salvarono meno di trecento,  furono rimandati nell’Ungheria turca, dove per la sconfitta disonorevole vennero decapitati.
L’eco dell’impresa che “ungheresi” avevano resistito e vinto i turchi si sparse in ogni villaggio della puszta. L’ungherese concesse il titolo comitale ad Andrea(la pergamena conservata nella cappella di famiglia sparì dopo il furto subito, 14 gennaio 1898, sparirono anche quadri e preziosi presenti) e al nipote e nobilitò tutti gli ottanta uomini rimasti della guarnigione ( talvolta, per i loro privilegi, i nobili potevano concedere titoli nobiliari minori a uomini di fiducia, ufficialmente questo atto doveva essere riconosciuto anche dal Re, ma non essendoci un “vero” re, si necessitò sempre meno del consenso regio; oggi non sono più presenti né la patente né la minuta, tuttavia fino a pochi anni fa era presente nell’archivio cartaceo diplomatico ungherese una loro lettera, nella quale si menzionano i due fratelli con il titolo comitale). Da alcuni ufficiali della colonna di rifornimenti, Andrea seppe che l’esercito imperiale aveva invaso l’Italia ed era un’orda senza controllo e si stava dirigendo verso Roma. Nominò uno degli ufficiali, appena nobilitati, suo successore al comando e si precipitò verso l’Italia, l’intera torma e la sua unità. Arrivò in Italia, ma giunse troppo tardi per aiutare Giovanni dalle bande nere, ma non per accompagnarlo nella morte(prima di morire gli disse che era contento di morire accompagnato  “dall’uomo più valoroso che avesse mai conosciuto”).
Lungo la strada raccolse mille dei veterani delle bande di Giovanni sfuggiti agli imperiali, desiderosi di vendicarsi e con i “suoi” si diresse verso Roma constatando lungo la strada lo scempio dei Lanzichenecchi. Molti portavano le teste di monache o bambine sulle punte delle loro picche, infervorati dall’eresia luterana e da tutti i “fantomatici” santoni che percorrevano l’arco alpino. Spezzò il “cerchio di ferro” che stringeva l’agro romano nei pressi di Viterbo, ed entrò a Roma tra il giubilo dei difensori.  Nel 1527 fu sulle mura di Roma contro gli Imperiali di Carlo V, non si diede per vinto nemmeno quando dovette ritirarsi all’interno della città, tanto che con i suoi, cercò di mettere in salvo più gente possibile entro Castel Sant’Angelo.
La leggenda vuole che.. “dei suoi fedeli, della torma e dei veterani di Giovanni, dopo vari scontri, non uno ne sopravvisse, ma nessun lanzo che li aveva uccisi lo poté raccontare”. Ormai coperto di ferite sul davanti, ma nessuna sulla schiena, Andrea affiancò gli svizzeri nei combattimenti all’interno della città,  con loro coprì la ritirata del Papa entro le mura di Castel Sant’Angelo. All’interno delle mura il capitano della guardia, dopo averlo fatto curare e estrarre le frecce fu orgoglioso di donargli il proprio elmo. Riuscì attraverso varie peripezie a rientrare in patria a Venezia, dove nel frattempo erano giunti i suoi due figli.. Dopo una vita passata con la spada in mano, era stanco, si dedicò a rifocillare la fortuna di famiglia, importando il cosiddetto “sapone di Aleppo” tanto desiderato a Venezia e grosse quantità di granaglie. Si trasferì  a Spalato. Viaggiò in incognito nel Mediterraneo, come “osservatore”. Gli venne attribuito anche un ritratto a penna del Barbarossa(il beylerbey e kapudan pasha Khair ad-din, il grande ammiraglio della flotta turca e ministro della guerra), e  della sua galea  personale vista nel porto di Algeri, quando fu inviato a riscattare alcuni prigionieri o durante una delle sue numerose missioni. Volle anche codificare il più possibile la tradizione famigliare iniziando con una riforma personale dell’antico blasone, e divenne: "Trinciato, di verde e di rosso, al leone rampante dell'uno all'altro, alla cotissa d'oro attraversante sul tutto, caricata di tre gigli di rosso "(la zampa era alzata perché posava sulla testa di un giannizzero, tipico dell’araldica ungherese del cinquecento, il figlio Antonio(3) decise di eliminare il turpe trofeo, perché mal si confaceva alla mentalità veneziana dell’epoca); impresse anche il suo motto personale: “SEMPER LEO”. Proseguì la stesura dei suoi memoriali descritti minuziosamente. 

Andrea morì a Dulcigno anni prima della conquista turca. Della sua tomba si erano perse le tracce fino al febbraio 2016. Grazie al signor Gezim Mavric, fotografo locale, sul portale di quella che fu la loro residenza a Dulcigno, trovò incastonata parte della lapide tombale di Andrea, in cui venne seppellito dai gianizzeri anche il figlio Antonio. Successivamente la piccola chiesa divenne moschea (fino al 1908) e le lastre tombali del pavimento vennero scalzate e gettate in mucchio per essere riutilizzate. Non si conosce ancora che fine fecero i loro "resti mortali" .....Ebbe due figli, Marco(2) e Antonio(3).

ANTONIO(3)
Di carattere guerriero come il padre, crebbe nell’odio a causa del ricordo della fine della madre. Trasferì la nuova sede a Dulcigno col padre e i figli. Nel 1562 con una ducale il doge Gerolamo Priuli(datata 15 aprile 1562, si sottolinea il buon risultato degli incarichi portati a termine per la Repubblica), viene riconfermato nell’onorifico titolo comitale in perpetuo per tutti i suoi legittimi discendenti. Nel 1569 a Venezia ci fu un’enorme carestia di biada, frumento e segale(nella ducale del doge Pietro Loredan, esso viene inviato alla ricerca di codesto “materiale prezioso” “il conte Antonio Zanotto cavaliere di Dulcigno” nella quale gli si chiede, raccomandandosi al suo noto buon servizio verso la Signoria, di fare il possibile per poter portare la massima quantità trovabile senza badare al prezzo e nel caso servissero denari, poteva richiederli a qualunque magistrato che subito li avrebbe avuti, addirittura fino a trecento zecchini, l’importanza del personaggio per la Repubblica è ulteriormente sottolineata da come continua la stessa ducale “..ne teniremo quella memoria che si conviene” “..e che debba mandare le granaglie a Venezia subito, subito, subito”).
La città , nel 1571, venne assediata da un enorme contingente ottomano al comando di Piali pascià e, dopo un intenso bombardamento di dodici giorni, a metà luglio, è costretta ad arrendersi.  I Turchi non rispettarono i capitolati di resa, uccisero molti dei difensori che non vollero diventare rinnegati. Vennero uccisi sulla pubblica piazza come monito per la restante popolazione. Antonio dopo un battibecco con lo stesso pascià, morì e fu decapitato(la tradizione familiare ci riporta parte del discorso, udito da uno dei figli, aveva previsto la fine della città e pertanto aveva preparato la fuga per i figli per continuare la lotta, alla richiesta della conversione ad Allah, esso rispose: “essere cristiano e come essere veneziano, più che un privilegio è un onore che non si compra con un piatto di lenticchie, velato riferimento ai gusti culinari del pascià, e se non avessi le mani legate e potessi ancora brandire la mia spada, che tanti dei tuoi hanno conosciuto e che non lo racconteranno mai, ti ucciderei da quel cane che sei, e al massimo potresti avere una tomba, solo se trovassi qualcuno che fosse così cristiano da fare la fatica di scavarla, ma l’unico così cristiano è il papa e sta a Roma, pertanto verresti buttato tra i maiali da quel porco che sei..” mentre lo diceva sorrideva, sorridevano sia gli altri condannati sia i mussulmani..sapeva che di li a poco sarebbe morto ugualmente..ma tra gli Zanotto l’onore è onore nessuna cifra è abbastanza alta da pagarlo! A tale discorso diversi vecchi comandanti del pascià applaudirono, inconcepibile per lui, normale per loro, rispettavano qualcuno che nemmeno nella morte non hanno sconfitto, riprendendo l’antico detto mussulmano “il valore del tuo nemico ti onora”..quando seppe dell’accaduto il Gran Visir Sokollu, fece pervenire ai figli a Venezia una medaglia d’oro che portava la seguente iscrizione.. “Il valore del tuo nemico ti onora”, anch’essa trafugata nella notte del 14 gennaio 1898). Fu Cavaliere di San Marco(?). Ebbe sette figli: Alvise(4), Marino(5), Giacomo(6), Bortolomio(7), Andrea(8), Cristoforo Lororenzo(9), Cristoforo(10).

GIACOMO(6)
Fin da giovane fu educato all’uso delle armi e nelle lingue. Lasciò Dulcigno anni prima della morte del padre. Venne richiamato a Venezia d’urgenza, in una riunione privata con il Consiglio dei X, seppe della morte del padre. 
Accettò di promuovere azioni di guerriglia e disturbo ai danni delle varie piazza-forti
ottomane. Portò le sue azioni persino nei dintorni della stessa Costantinopoli assoldando bande di briganti, assassini ed altro purché distogliessero battaglioni di soldati dal fronte. Partecipò quasi sempre in prima persona alle scorribande per dirigerle. Eseguì una mappa del porto di Costantinopoli, con le difese ed i punti d’approdo. Partecipò in prima persona alla battaglia di Lepanto come descrive la tradizione: “travestito da pastore greco locale, armato di pugnali, due nascosti nelle fasce delle calzature, nella cinta e uno sotto la camicia, era sbarcato dalla galea che lo aveva trasportato e sulla quale aveva lasciato la sua armatura, di produzione tedesca, della quale la borgognotta con mezza buffa è ancora presente. A piedi raggiunse la cima di uno dei promontori che sorvegliavano l’insenatura della baia. Salito in cima, come si aspettava, trovò un bivacco di tre giannizzeri che sorvegliavano la flotta dall’alto. Quando lo videro arrivare e tentarono di balzargli addosso, ma vennero eliminati dai due pugnali, che lanciati, colpirono uno all’addome e l’altro alla gola. Il terzo non tentò di dare l’allarme, tipico della mentalità dei giannizzeri, più un nemico è forte e più c’è gloria nell’abbatterlo. Giacomo fidando in questo attese l’attacco con un pugnale per mano, il giannizzero sguainò la scimitarra e sferrò un fendente che venne parato dalla daga nella mano destra, e con un passo avanti gli infilò l’intera lama della daga nella gola perché non gridasse. Recuperò i pugnali, nascose i corpi, accese delle torce sul fuoco del loro bivacco, fece dei segnali alla capitana dei Cavalieri di Malta (con il comandante, il veneziano Pietro Giustiniani, aveva già preso accordi). La capitana entrò a lanterne spente, controllò il fondale per verificare che non ci fossero trappole sommerse. Esso nel frattempo prendeva appunti sul numero e sul genere delle navi della flotta Turca. Terminato il suo compito, lasciò la maggior parte degli abiti dietro ad un cespuglio, ne tenne alcuni stracciandoli. Scese verso la spiaggia e si confuse con gli schiavi scesi per caricare i rifornimenti (possedendo la conoscenza delle lingue slava, albanese, greca e turca), li avvertì che presto sarebbero stati tutti liberati. Gli schiavi si galvanizzarono.  Intanto salì sulla sultana del rinnegato cristiano,  Ulug Alì, lesse gli ordini di battaglia e scese dalla nave senza che nessuno si accorgesse di lui. In quel momento di pace, i Turchi non pensavano minimamente di essere attaccati. I cavalieri di Malta lo aspettavano in una piccola rada a lanterne spente. Salì sulla loro galea che si diresse verso Messina, nella cabina del Giustiniani trascrisse gli ordini turchi in italiano e consegnò una copia ai comandanti in capo e una la diede al Giustiniani stesso(copia che a fine battaglia lo stesso Giustiniani stesso donerà a Giacomo). Si rivestì di nuovo della sua armatura e partecipò egli stesso alla battaglia sulla capitana della flotta sabauda(fungendo da tramite, in quanto conoscitore del cifrario veneto della marina militare)”. Sulla stessa galea conobbe Francesco Maria II della Rovere, Francesco Paolo Sforza di Caravaggio e Gianbattista Bonarelli della Rovere. Combattè valorosamente assieme al conte Andrea Provana di Leynì, Giacomo gli chiese di non figurare nel suo rapporto al suo duca e il conte, benché non convinto, accettò.  Leynì non lo nominò, ma menzionò in lode al suo aiuto il si fa riferimento ad un apporto esterno. La relazione è conservata nell'Archivio di Stato di Torino. Per gli innumerevoli atti di coraggio, come la sottrazione degli ordini di comando dalla galea capitana di Ulug Alì pascià (ove si delineava come sconfiggere la flotta cristiana a Lepanto ed averli inviati a Venezia, affinché il  governo prendesse provvedimenti), l’esecuzione di una mappa manoscritta del porto di Costantinopoli, segnalazioni tramite torce ai Cavalieri di Malta, ed il fido suo e fedele servizio dei suoi, venne creato cavaliere di San Marco (Kr), dal doge Alvise Mocenigo I, nelle sue stanze private, con ducale datata 16 dicembre 1571, beneficio trasmissibile a tutti i suoi discendenti legittimi in perpetuo.
Durante un altro viaggio, sfortuna vuole che la sua galea venisse attaccata e catturata dai pirati. Venne portato in catene a Costantinopoli( sicuramente fu imprigionato a Yedi Kule, sette torri, cerniera dell’apparato difensivo dell’antica Costantinopoli).
Patì in prigione le torture e solamente alla carità pubblica della Repubblica poté ritornare in patria. Per le torture subite nelle prigioni turche poco tempo dopo morì.                     
Trasferì titolo comitale ai figli legittimi, di modo che potessero trasferirlo in perpetuo.
Ebbe quattro figli: Lorenzo(11), Giacomo(12), Giovanni(13), Andrea(14).
Ebbe una figlia ZORZINA.
I figli decisero di trasferirsi nel pordenonese, dopo matrimoni convenienti diedero origine a nuovi rami.

CRISTOFORO(10)
A differenza degli altri, votò anima e corpo alla guerra contro i Turchi. Presentò le “prove”, venne accettato nei “Cavalieri di Malta”(una magistrale, datata 1586, del Gran Maestro Hugues Loubenx de Verdalle, lo si accetta a vestire l’abito come frate-cavaliere). Non portò mai il titolo comitale, preferiva quello di “fra’”. Volle combattere i Turchi in prima persona. Morì  durante una delle loro “caravane”, in uno scontro la flottiglia incontrò alcune  galee di Algeri, ebbe la meglio, ma tra le cristiane che affondarono vi fu anche la sua.         

Già giovane abbracciò la carriera diplomatica, ma non seguendo i consueti “canoni statali”, aiutando nel loro compito i vari oratori della Repubblica(si conserva una ducale del doge Antonio Priuli, datata tra il 1618-23, nella quale si parla dei molti meriti della sua famiglia che si sono sacrificati per la Repubblica) , grazie alle sue “conoscenze”. Fu anche un soldato. Per imparare l’arte della guerra si arruolò nelle scorte delle navi che percorrevano l’Adriatico. Durante uno di questi viaggi salvò la vita al conte Charles de Batz Castelmore( tutti ormai lo conoscono come D’Artagnan, dal cognome della madre che Charles usava per conferirsi maggior lustro, in quanto appartenente a una famiglia di più antica nobiltà di quella paterna), il quale per ringraziarci ci donò una medaglia che noi tutt’ora possediamo ( ci disse era un dono del re Luigi XIII a suo padre), l’unica cosa di valore che possedeva e lui gliela donò per avergli salvato la vita "spostandolo dal tiro di un moschetto degli Uscocchi"…la tradizione ci riporta una sua frase(vera o presunta), "...Se posso ancora raccontarlo lo devo a te Signore..".

Fu Cavaliere Marciano.

ZUANNE(18)

Fin da giovane amò le armi e le glorie della famiglia, nonché le curiosità dei vari insegnamenti rispetto alla vita “noiosa” da villa. Amando andare a cavallo, fu attratto dai tornei e dalle tecniche non convenzionali di combattimento a cavallo tipiche delle genti delle steppe. Con il beneplacito del doge Francesco Contarini(1623-24) come si evince da una ducale , gli si concede la possibilità di formare un’unità di cavalleria leggera alla maniera “turchesca”composta da stradioti o stratioti (la cavalleria greco-albanese al servizio della Serenissima)per bloccare le scorrerie di predoni albanesi. Amava farsi chiamare Zuanne Paolo, e così noi lo ricordiamo. Fu Cavaliere Marciano

ALESSANDRO(21)
Famoso avventuriero della sua epoca. Nel 1661 donò un bellissimo cavallo persiano acquistato in uno dei suoi tanti viaggi a Saveh (oggi si trova nella Markazi dell’Iran a ovest di Tehran) al doge, dopo averlo pagato a peso d’oro.
Dalla stessa città importò a anche grosse quantità di grano e cotone che lo resero enormemente ricco. 

I Persiani lo avevano soprannominato, molto allegoricamente, "Colui che cattura le frecce con le mani e frusta chi le ha scoccate", questo sopranome lo divertiva moltissimo, tanto da imprimerlo nei suoi sigilli da viaggio.   Fu Cavaliere Marciano.
Ebbe un figlio: Francesco(22).

 

ANDREA(25)
Fu un abile“spadaccino”. Si dedicò a ingrandire la fortuna di famiglia.
Si recò a Creta per aprire una possibile filiale della sua cartiera (e per iniziare l’importazione di legnami pregiate e piante) già molto fiorente grazie alla quantità considerevole di corsi d’acqua nella zona, nonché per studiare la nuova situazione politica, voleva battere sul tempo la ditta Morosini di Aleppo. A Creta, studiò le abitudini locali cercando qualche nuova fonte d’affari, qualche particolarità che potesse essere commerciata a Venezia.
Ricevette un incarico da Nicolò Contarini, per conto del Luogotente della Patria del Friuli, Sebastiano Mocenigo(datato 3 gennaio 1715). Nel luglio 1716 fu alla difesa di Corfù con il conte Johann Matthias von der Schulenburg.
Nel 1722 fu il primo veneziano a rimettere piede a Dulcigno dopo la riconquista veneta. Venne benemeritato dal doge Alvise MocenigoIII definendolo “fidel viro dilecto”. 
Fu Cavaliere Marciano.  
Ebbe tre figli: Antonio(26), Giacomo(27), Leonardo(28). Ebbe anche due figlie: Pierina e Cecilia.

ANTONIO(26)
Studiò a fondo l’arte e la strategia militare. Partecipò al “Gran tour”. Il suo fidato segretario Zani Zurlo lo seguì, fin da giovane, nei suoi viaggi, descrivendo ogni cosa indicata “che risultasse degna di nota”. In questo periodo nacquero anche una sequela di diari definiti da lui stesso “diari domestici per la buona conduzione della casa” in cui si descriveva tutto quello che poteva destare interesse e riproporlo nella villa e nel parco annesso, di questi diari è sopravvissuta solamente una pagina. Nel 1751 svolse alcuni incarichi per il 68° Principe e Gran Maestro Manuel Pinto de Fonseca.
Il 16 ottobre 1753, Il “cugino Francesco” (dei rami veneziani, non comitali), gastaldo del doge, a Venezia, dell’arte degli Squeraroli, permise a lui e ai suoi amici di vedere la costruzione di una fregata da Guerra - nel foglio se ne riproduce uno schizzo a penna del segretario - lo accompagnarono i patrizi Querini e Dolfin.  Tenne ottime relazioni anche con l’ambasciatore inglese, il quale gli inviò una copia dei disegni di Leonardo da Vinci.
Gli chiese espressamente quelli sui “cavalli”, per confrontarli con le stampe del libro del N.H. Pietro Garzoni.
Nell’ottobre 1753 si accinge a compilare una nuova storia del suo  casato.
Fu Cavaliere Marciano. Sposò Angela Chiozzotta o Chizzotta.
Ebbe quattro figli: Giacomo(30), Giuseppe(31), Andrea(32), Andrea(33).
Ebbe anche sei figlie: Giovanna, Maria Maddalena Rosa, Lucia, Cecilia , Gudetta.

GIACOMO(30)
Nacque il 2 maggio 1742. Organizzò un sontuoso matrimonio per la sposa Anna Orsola Carrara (discendente di Ubertino III, principe di Padova). Pervenne anche un schizzo del blasone progettato per un figlio. Fu un famosissimo collezionista di antichità romane. Per ampliare le sue conoscenze viaggiò a Firenze, Roma e Napoli. Ebbe la possibilità di visitare gli scavi di Pompei, osservò le statue del Belvedere e visitò la Tribuna degli Uffizi. 

 Rifiutò le richieste napoleoniche di sottomettersi al nuovo potere, pertanto gli vennero requisiti i suoi famosi diari di viaggio(nei quali annottava minuziosamente tutto ciò che vedeva o che scopriva di interessante), usati forse per il futuro Trattato di Tolentino del 1797. 
Gli requisì inoltre le cronache famigliari e la parte più voluminosa della collezione, accettò il suo  titolo nobiliare e il cavalierato, ma non li riconobbe del tutto a causa dell'affronto subito.
Molti arredi e collezioni dovettero essere nascosti dai servi nei passaggi sotterranei che dalla villa conducevano alla cappella di famiglia, nel parco retrostante. I francesi comunque si accanirono contro tutti i simboli del leone marciano, proclami compresi. Dei pochi arredi rimasti molti vennero confiscati, come accadde in molte residenze gentilizie al passaggio  delle truppe napoleoniche. Come la sua famiglia aveva sempre data cuore e anima a Venezia, così sentiva lui con i suoi fratelli di non poterla abbandonare nel momento di estremo bisogno, a differenza di molti feudatari esponenti del passato governo veneziano che cercavano riparo nei loro feudi aviti.
Aveva fatto piantare dai suoi contadini nelle proprietà della moglie di Porcia e di Oderzo, grano, viti e gelsi. Morì il 9 marzo 1821.
Per suo espresso volere chiese di spirare con la croce di cavaliere e coperto dal vessillo di San Marco. Ebbe due figli Antonio(33), Giovanni Antonio(34).
Ebbe anche quattro figlie: Tirisia, Anna Laura, Auria Maria e Elisabetta . 

A causa di diatribe familiari i beni di questo ramo della famiglia vennero venduti. Il quadro del 1770 circa, commissionato al pittore veneziano Alessandro Longhi dal marito, finì dopo un lungo passaggio attraverso mercanti d'arte, agli Uffizi di Firenze. Ringraziamo sinceramente per il suo aiuto nel "ritrovamento" del quadro la dott.sa in storia dell'arte Serenella Fidelibus e per il suo aiuto nell'attribuzione certificata anche dall'Archivio Digitale delle Gallerie degli Uffizi, non più come semplice "Ritratto di gentildonna", ma "Ritratto di Anna Orsola Carrara dei Carrara di Oderzo(Treviso)".

GIUSEPPE(31)

Nasce il 22 ottobre 1747. Sin da giovane mostrò il vero carattere degli Zanotto.  Fu uno degli ultimi alfieri dell’antico “spirito veneziano”.
Nel 1771 accompagnava Giacomo da Riva(Provveditore generale di Dalmazia e Albania), durante uno dei suoi spostamenti. Incontrò la procuratessa di San Marco Caterina Dolfin Tron. Sposò il 30 ottobre 1782 Cecilia Pujatti. Durante una passeggiata notturna per le vie di Venezia con un il nipote del doge Alvise IV Mocenigo, venne assalito. Dopo una lunga schermaglia di spada, mal usata a causa della via stretta (un sotto portego), venne sopraffatto dal numero degli assalitori. Fortuna volle che sotto la marsina e la camisiola  indossasse la brigantina. Se non lo avesse fatto sarebbe certamente morto.
Fu solamente grazie agli strilli dei passanti che accorsero gli uomini della “ronda”: alla vista dei soldati, gli assalitori si dileguarono. Giuseppe e il nipote del doge, furono condotti immediatamente nell’appartamento ducale, dove venne immediatamente curato dall’archiatra del doge. Il ringraziamento del doge si  esternò senza limiti, davanti alla presenza dei capi del Consiglio dei X. 

Prima che lasciasse il Palazzo Ducale gli donarono, per la fede incrollabile nella Repubblica, sua e dei suoi antenati, il vessillo di San Marco. Il doge gli donò una preziosissima croce con collana, forse una delle collane più costose di Venezia. Il 19 settembre 1772,  voluto e magistralmente diretto dall'allora procuratessa Caterina Dolfin Tron(discendente dal matrimonio del 1451 Dolfin-Zanotto). Volle e orchestrò perché tutti i discendenti degli Sayn nei loro vari rami fossero presenti..Arrivarono i Zani da Bologna, i discendenti dei ormai estinti Zanoto di Padova, e i Zanotto di Venezia e i vari rami del Friuli, dalla Germania con una scorta e in incognito arrivò anche il duca Guglielmo Enrico di Sassonia-Eisenach erede dei Sayn Altenkirchen..a detta delle cronache i festeggiamenti grazie alla procuratessa furono incredibili..Fu una gran donna, una delle sue frasi famose diceva: “Ma mi fia d’un Dolfin, Mujer de un Tron, go' sangue Zanoto, Batto grinta, per diana, e no me mazzo e se casco, no casco in zenocion.” 

In un plico di documenti ritirato dall’archivio dell’Avogaria di Comun alla caduta della Repubblica presenta un albero genealogico datato 1777, lo accompagna un manoscritto datato 26 maggio 1783 del Doge Paolo Renier. Fu "messo" del Senato Veneto. Consegnò a un membro della famiglia Querini o Quirini, una medaglia commemorativa in oro zecchino "Pro Fide et Pro Patria".  Nell’ aprile 1797, Giuseppe e il fratello Giacomo furono tra i primi a incontrare le  staffette partite da Verona, le quali sbarcando davanti a Palazzo Ducale vennero subito interrogati rudemente per sapere cosa stava succedendo…non si fecero crescere “l’erba sotto i piedi”. Si diressero subito da alcuni ufficiali loro conoscenti, delle milizie, per reclutare a tempo di record dalmati, cechi, ungheresi, schiavoni e tutti i gli albanesi che trovavano. Volevano gente veloce, irruenta e da sfondamento, ma soprattutto gente fedele che non meditava sulle decisioni, non c’era il tempo…cercavano qualcuno che fosse abbastanza “pazzo” quanto loro. Misero “in campo” 2000 zecchini ciascuno, comperando velocemente tutto il disponibile, riuscirono a mettere insieme 1437 uomini, ciascuno aveva 5 cavalli(cambiandoli continuamente per non stancarli troppo) e 5 fucili già carichi, due canoni leggeri smontati sui cavalli che non venivano montati. Con una andatura forzata durata 2 giorni riuscirono a coprire la distanza tra Mestre e Verona, mangiando e dormendo a cavallo a turno, molti cadevano dalla sella per la stanchezza, un paio di volte almeno anche i due fratelli. Per la faticaccia la maggior parte dei cavalli morirono, furono costretti a requisire tutti i cavalli dei “cambi” che trovavano. I cechi per stare svegli affilavano in continuazione spade e coltelli in silenzio. Si trovavano già a Verona quando il Senato Veneziano decise di inviare il provveditore Erizzo e il generale Stratico. Prima dell’inizio degli scontri si salutarono e ci fu una bevuta della “tremenda grappa ceca”. Purtroppo non riuscirono ad entrare a Verona a causa dell’enorme numero di truppe che Napoleone, furioso aveva fatto accorrere, riuscirono però con continue sortite di giorno e di notte per cinque giorni di fila solo a rallentare le operazioni dei francesi, attaccando le retrovie, eliminando i depositi della polvere da sparo e inchiodando quando riuscivano con cunei i canoni. Ritornarono, in quanto impossibilitati a portare aiuto.. indietro… tutti feriti…ma solo in 9, di cui tre cechi morirono lungo la strada…fu l’ultima azione militare degli Zanotto al servizio della Gloriosa Serenissima Repubblica di Venezia….Gli venne dedicato un libro che illustrava la storia della famiglia con un discorso sopra gli antenati. Le truppe francesi imposero diverse leggi per rimpinguare il già sprovvisto esercito francese. Fortunatamente essendo troppo anziano per la leva napoleonica riservata alle cosiddette famiglie “abbienti” (molto simile come sistema a quello iniziato durante la “neutralità armata veneta del 1792”, definita a estrazione a sorte, che a sua volta riesumava quella dei “Landsturm” austriaci), Giuseppe e i suoi fratelli non poterono entrare nella Guardia d’Onore (creata il 26 giugno 1806) o nei Veliti Reali. Assieme ai fratelli, il 16 aprile 1809 assistette alla “battaglia dei Camolli”  all’interno del territorio del comune di Porcia, successiva alla pace di Luneville (9 febbraio 1801) tra Francia e Austria e quella Presburgo (26 dicembre 1805)nella villa di Rorai  Piccolo (oggi frazione di Porcia). Vide i vari movimenti delle  formazioni di Frimont, Lamarque e i dragoni di Pully,  il generale Splenyi con la sua brigata di ussari  pronta a partire dal suo acquartieramento di Rorai.      
La voce che continuavano a riportare i contadini, spesso saliti sulla cima degli alberi, era che poderosi eserciti si erano schierati.                                             
In lontananza poteva vedere anche il conte Gyulai con il suo 61° fanteria correre in soccorso delle truppe asburgiche.  Il massacro spaventoso a cui dovettero assistere, anche se da lontano, li segnò profondamente. Per tale motivo furono tra quelli che a Porcia impostarono una parvenza di ospedale da campo.                                                        
Vi erano più moribondi che feriti (trasportati dai carriaggi come mercanzia), dalle descrizioni che lasciarono nei loro memoriali, sentirono chiamare e chiedere aiuto in almeno una decina di lingue diverse. Nei giorni successivi le autorità austriache richiesero l’aiuto di tutti coloro che potevano essere utili, diverse attestazioni dell’archivio del comune di Pordenone lo confermano.
Il loro ospedale curò sia francesi sia asburgici. Molti purtroppo morirono e vennero sepolti nelle fosse comuni. Alcuni ufficiali francesi si salvarono e ritornarono ai loro reggimenti  al seguito del viceré Eugenio de Beauharnais (figliastro di Napoleone).
Mesi dopo a Prata tutti stupirono quando arrivò una lettera, portata da un corriere diplomatico militare francese ove si ringraziava il conte Giuseppe Zanotto di Prata e suo fratello per il loro spirito cavalleresco. La lettera portava due firme una del viceré d’Italia Eugenio de Beauharnais e la seconda era di Napoleone. Una curiosa postilla scritta da Napoleone in persona diceva: “Non ci siamo scordati dello schiaffo del coraggioso conte veneziano, i coraggiosi vanno preservati, ci piace saper che esistono anche al di fuori della Francia, ma i diari della sua famiglia stanno meglio nelle nostre mani”. Allegata alla lettera vi era anche la patente di nobiltà di conte dell’impero che, anche se tardiva,  era arrivata.
In seguito al cambiamento del governo francese con quello asburgico, le umiliazioni non erano finite. Come tutti i nobili presentò la propria domanda di riconoscimento dei titoli aviti della famiglia alla Commissione araldica austriaca, ma i requisiti in denaro erano molto alti, pochissimi poterono avere il riconoscimento dei titoli.  Altri in compenso divennero nobili senza esserlo mai stati . Contro questa decisione presentò ricorso alla “Camera Aulica di Vienna”, la quale accettò il ricorso, riconoscendo tutti i titoli aviti. La Camera, tuttavia, impose tasse troppo elevate, così Giuseppe riuscì solo per pochissimo a corrispondere a tali tasse, pertanto se nei registri particolari gli veniva riconosciuto il titolo, nei registri pubblici era stato prima riconosciuto e poi depennato, questa volta per sempre.
Morì il 20 agosto 1823. Impedimenti austriaci gli vietarono di portare il titolo di Cavaliere Marciano e la relativa croce in pubblico; chiese di spirare come il fratello Giacomo.
Ebbe quattro figli: Giovanni Batta(36), Giacomo(37), Luigi(38), Giovanni Antonio(39). Ebbe tre figlie:
MARIANNA nacque il 9 aprile 1784.
TERESA sposa il 24 ottobre 1821 Antonio Bortolin.
CATTARINA nacque il 12 settembre 1798.

GIOVANNI ANTONIO(39)
Nacque il 24 giugno 1802. Dopo aver compiuto l’iter formativo con i suoi precettori, relativo alla sua levatura sociale e al suo censo, cercò di risollevare il patrimonio familiare. Dovette far affidamento sulla cartiera(non durò molto a causa di un incendio e il successivo termine di maestranze specializzate), sui terreni e i boschi ancora in possesso. Investì maggiormente nei boschi in Carnia(specialmente nella zona sul confine austriaco, in tal luogo fece restaurare due antiche torri di guardia veneziane, inglobandole in un palazzetto tutt’ora esistente, due interi paesi provvedevano a tale abitazione) e nella valle del Meduna, in azioni del nuovo sistema bancario. Il 5 marzo 1833 sposò Chiara Giustina Valdevit (rampolla di una tra le famiglie più abbienti di Pordenone, che intendevano legarsi all’antica nobiltà). I Valdevit in pochissimi anni diventarono una delle famiglie più importanti dell’intero territorio pordenonese. I fratelli Valdevit diedero vita nel borgo di San Cristoforo sul rio Folo ad un piccolo stabilimento di tessitura del cotone, la casa-castello Querini-Valdevit, di marcato carattere neogotico, con  il parco e gli storici stabilimenti Galvani furono distrutti per il progetto del 1970 di G. Valle. In molte delle famiglie con cui nella storia si imparentarono permangono tracce del loro passaggio, come i blasoni (per la libertà dell’araldica veneziana, non sempre i tre gigli vennero riportati). Uscì dalla casa paterna per stabilirsi a Rorai piccolo di Porcia dando inizio a tale ramo. Partecipò con ingenti capitali alla Repubblica di Daniele Manin nel 1848, combattè finchè non fu ferito, ritornando nella sua villa per sempre. Nel 1855 gli austriaci portarono il colera, da cui Giovanni Antonio, con difficoltà, uscì indenne.
I componenti del ramo da lui fondato non ebbero più il riconoscimento del titolo comitale, né del cavalierato nei registri ufficiali sulla nobiltà: solo nei registri segreti si fa menzione di loro. Giovanni Antonio morì prematuramente. Ebbe un figlio: Giuseppe Giacomo(40).

GIUSEPPE GIACOMO(40)
Nacque il 10 dicembre 1834. Alla morte della madre, cedette la casa acquistata. Nel 1857 gli venne proposto l’acquisto di parte delle quote della miniera di argento sul monte Avanza (oggi in località Forni Avoltri). Per verificare l’effettiva estrazione e soprattutto per la villeggiatura, continuò la trasformazione delle torri nell’attuale palazzo estivo della famiglia, abbellendolo con molti dei cimeli salvati della famiglia. Sposò il 30 novembre 1861 l’ereditiera Caterina Giulia Del Ben. 

Si trasferì definitivamente nella villa di Rorai Piccolo (di proprietà della moglie). Affittata la villa di Prata e la villa della madre, cedette la cartiera impiantata nelle proprietà della madre.  Successivamente inizia a scrivere una storia della famiglia. Fu un famoso collezionista di oggetti greci e soprattutto romani. 
Morì l'11 giugno 1886. Ebbe quattro figli: Giovanni Batta(41), Antonio Angelo Olivo(42), Antonio Luigi(43), Luigi Osvaldo(44). Ebbe cinque figlie: Chiara Maria, Antonia Maria, Marina Maria Luigia, Luigia, Giovanna.